The Screaming Woman

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  • Cosa succede in Messico?

    Ricordate l’8 marzo? A Mexico City, nonostante le limitazioni dovute al Covid-19, centinaia di donne si sono riunite per manifestare contro l’aumento delle violenze registrato nel 2020.

    Attorno al Palacio National, dove risiede il presidente Andres Manuel Lopez Obrador, c’erano barriere protettive altre tre metri. Le dimostranti hanno iniziato a scriverci sopra i nomi delle donne uccise nell’ultimo anno e quelli di amiche, madri, figlie, sorelle, tutte vittime di violenza. Lo spazio non è bastato.

    Questo è un video della BBC che riassume la giornata, ma molte altre immagini e filmati si trovano facilmente sui siti dei principali quotidiani internazionali.


    Cosa succede in Messico?

    Secondo quanto riportato in un articolo della Thomas Reuters Foundation, nel 2020 le chiamate di emergenza per segnalare una violenza sono passate da 198.000 a 260.000. Un bel 30% in più, al quale si aggiunge il dato dei femminicidi: 940 in dodici mesi.

    Nei giorni scorsi, l’attrice Florence Pugh  ha condiviso alcuni messaggi ricevuti su Instagram da follower messicane. Potete leggerli nelle storie in evidenza sul suo profilo, nel tondino Femicides. Ne traduco uno:

    In Messico ci ammazzano per il solo fatto di essere donne. Dobbiamo stare attente a come ci vestiamo, così non ci stuprano o uccidono.
    Dobbiamo essere sicure che non ci stiano seguendo e ogni giorno è terrorizzante.
    Il nostro governo non sta facendo niente e siamo stanche di combattere per qualcosa per cui non ci dovrebbe [essere bisogno di] combattere.
    Abbiamo il diritto di non avere paura quando nostra madre, sorella, nonna, amica esce da sola.
    E i media ci dipingono sempre come “quelle pazze con problemi di rabbia” quando protestiamo.
    Ma più o meno 10 donne vengono uccise ogni giorno in Messico. 10… OGNI GIORNO.
    Come potremmo non essere arrabbiate? Siamo furiose. Siamo disgustate e stanche di tutto questo, e vogliamo che finisca. Tutto questo deve finire.

    Quella di rappresentare come pazze isteriche le donne che escono dal recinto e chiedono cose – diritti, sicurezza, rispetto, aggiungete pure a piacere – è una tradizione con radici millenarie (prima o poi capiterà di riparlarne), e che riemerge con particolare forza nelle dimostrazioni pubbliche.

    Infatti, le donne tendono a essere bersaglio di repressioni violente anche quando manifestano pacificamente.

    È successo due giorni fa a Londra, durante la veglia in memoria di Sarah Everard, la ragazza rapita e uccisa da un agente di polizia; altri casi, per tornare al contesto messicano, li analizza un report – in inglese – pubblicato da Amnesty International il 3 marzo scorso (lo si può scaricare integralmente).

    Traduco il paragrafo introduttivo:

    Fino a quel momento, era inimmaginabile che la polizia l’avrebbe fatto. È qualcosa che sappiamo, ma sperimentarlo è terrificante, perché si tratta dello Stato. Sappiamo che da queste parti in periferia c’è impunità per qualsiasi uomo che commette un crimine contro una donna, ma contro lo Stato è una causa persa.

    Anche in Messico, come in Gran Bretagna, l’assenza dello Stato e la mancanza di responsabilizzazione per chi compie violenza sulle donne emergono in tutta la loro desolante realtà.

    Foto in apertura: L’odyssée Belle on Unsplash.
  • Molestie sessuali nel Regno Unito

    tre ragazze che si tengono a braccetto

    Due giorni fa, il quotidiano inglese Guardian ha pubblicato un articolo sulle molestie sessuali ai danni delle donne nel Regno Unito. Da quanto riportato emerge che, se le ragazze italiane piangono, quelle inglesi certo non ridono.

    Un sondaggio realizzato da UN Women UK, la sezione britannica dell’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di parità di genere e questione femminile nel mondo (l’abbiamo incontrata nel Prontuario per un uso consapevole della Giornata internazionale della donna), rivela infatti dati poco incoraggianti: l’80% delle +1.000 donne intervistate dichiara di avere subito molestie a sfondo sessuale, e la percentuale sale al 97% nella fascia d’età fra i 18 e i 24 anni.

    In caso aveste difficoltà coi numeri – come me – rendiamo il concetto più comprensibile: 97% vuol dire 97 su 100, ovvero praticamente TUTTE.
    Le ragazze sopra i 18 e sotto i 25 anni sentono di essere “costantemente costrette a modificare il loro comportamento per evitare oggettivizzazioni e attacchi”, mentre le donne più grandi “sono seriamente preoccupate per la propria sicurezza ogni volta che escono di casa col buio – d’inverno anche durante il giorno”.

    Il sondaggio segnala inoltre la quasi totale perdita di fiducia nelle autorità: il 96% delle partecipanti non ha mai denunciato le molestie subite, e il 45% di loro ritiene che “non cambierebbe niente” anche se lo facesse.
    E non stiamo parlando solo di molestie “leggere” come catcalling 1 o battute allusive sul posto di lavoro, ma di donne che sono state palpeggiate, seguite per strada o forzate a un qualche tipo di attività sessuale.

    Forse le donne inglesi non si rendono conto che si tratta di molestie? Secondo Laura Bates, fondatrice del progetto Everyday Sexism, non è così: ne sono ben consapevoli, ma non hanno alcuna fede in un sistema “completamente marcio”.
    Prova ne sia che, prosegue sempre Bates, “se in UK parli di fischi o molestie subiti per strada, facilmente ti trovi sulla prima pagina di qualche tabloid bollata come ‘nazifemminista’ e accusata di esagerare”. Ovvio che le giovani donne dubitino di venire prese sul serio se denunceranno.

    Femmine italiane fra i 10 e i 100 anni, vi ricorda niente?

    Potete leggere l’articolo di Alexandra Topping (in inglese) sul sito del Guardian.

    1. Catcalling: la pratica di rivolgere ad alta voce per strada (presunti) apprezzamenti a persone sconosciute. Nella quasi totalità dei casi, le vittime del catcalling sono donne. Questo articolo, Cos’è il catcalling e perché in Italia non è ancora reato, approfondisce l’aspetto legale della questione.
    Foto in apertura: Adam Winger on Unsplash

     

  • Prontuario per un uso consapevole della Giornata internazionale della donna

    A murales depicting a woman's face in black and white

    Per prima cosa, non è la Festa della Donna. Sì, sappiamo che ci arrivano gli auguri e pure le mimose da Pandora, Interflora, Perugina, Bauli, H&M, Canale 5, il capo, il cugino, le amiche, la zia. E sappiamo che fra loro c’è chi ha buone – o quanto meno innocue – intenzioni (tu no, Vodafone), pertanto sta a noi decidere se accettarli, accettarli con riserva o rispedirli al mittente.

    Il punto rimane: l’8 marzo non è una festa. È la giornata scelta per celebrare le conquiste sociali, economiche e politiche ottenute dalle donne, e ricordare discriminazioni e violenze di cui sono state (e sono) oggetto.

    Non ha senso fare gli auguri a ogni femmina che vedete. Il 27 gennaio, Giornata della Memoria, fareste gli auguri a chi commemora i propri cari morti durante le persecuzioni nazi-fasciste, o a chi è sopravvissuto? Ecco, è lo stesso.
    Ancora meno sensate sono le battute pseudo-ironiche su quanto sarete gentili oggi con le vostre mogli / fidanzate / amiche / sorelle / insegnanti eccetera.

    È invece cosa buona e auspicabile approfittare dell’occasione per scoprire iniziative di informazione, resistenza e lotta, e magari decidere di supportarne una. Il sito di UNWOMEN, la divisione dell’ONU che si occupa di parità di genere e condizione della donna, ne raccoglie un po’; altre si possono trovare chiedendo a Google, che tutto sa e tutto rivela.

    Poi: no, l’8 marzo non rievoca un incendio nel quale morirono centinaia di operaie di una fantomatica fabbrica di camicie a New York. Questo articolo del Post racconta in modo succinto ma completo perché la Giornata internazionale della donna si celebra proprio oggi (anche se qua e là continua a chiamarla festa).

    Se avete più tempo, o più curiosità, ci sono le pagine di Wikipedia (italiana e inglese), ricche di dettagli, e uno speciale multimediale realizzato da Rai Cultura con tantissimi video, testimonianze, documentari e approfondimenti sulla “questione femminile” in Italia.
    (Vi si possono leggere altresì dati e classifiche che testimoniano quanto il divario economico fra uomini e donne sia presente e vivo, con buona pace di chi sostiene il contrario.)

    Per finire, nell’articolo del Post trovate anche la storia di come nel nostro Paese le mimose sono state associate alla Giornata della donna.

    Ed è la sorpresa più bella perché, dopo aver letto le parole di Teresa Mattei,1 penso che quei mazzolini gialli possono ancora trasmettere un senso di solidarietà e appartenenza a una causa comune. Forse.

    1. Teresa Mattei,  ex partigiana e dirigente del Partito comunista che, assieme a Rita Montagna e Teresa Noce, propose la mimosa come fiore simbolo della Giornata della donna.
    Foto in apertura: mostafa meraji on Unsplash
  • Donne e molestie: qualche dato

    Quando le donne dicono di non sentirsi sicure al di fuori della propria abitazione (spesso neanche all’interno, ma è un altro discorso), c’è sempre qualche voce illuminata, di solito maschile, che reagisce con un “esagerate!”.

    Nel giugno scorso, in risposta alla polemica nata dopo alcune esternazioni di Marco Crepaldi,1 lessi questo tweet (il nome dell’autore è oscurato perché non mi interessa né citarlo – non lo conosco – né focalizzarmi su di lui):

    In poche righe, pregevole distillato di merda patriarcale, ecco un grande classico: le donne che denunciano un problema o esagerano o sono pazze, e avrebbero bisogno di farsi vedere da uno bravo.
    Non vengono credute, nonostante l’imponente mole di dati disponibili. Perché sì (ennesima sorpresa), i dati esistono! Basta cercarli.

    Prendiamo ad esempio la questione delle molestie, ovvero: atti o comportamenti indesiderati a connotazione sessuale, di tipo fisico, verbale o non verbale, offensivi della libertà e della dignità di chi li subisce, ma che non sfociano in aggressioni violente (minacce armate, percosse, stupro). Quelle sciocchezze che ci fanno avere paura di sedere su un autobus da sole o tornare a casa anche se non viviamo nel Bronx, insomma.

    Da La rabbia ti fa bella di Soraya Chemaly, apprendiamo che:

    Secondo diversi studi su larga scala eseguiti dall’organizzazione no profit antimolestie Stop Street Harassment,2 una quota di donne che oscilla tra i 65 e il 98% ha subito per strada molestie ostinate che hanno cambiato il corso della sua giornata. Uno studio simile, condotto a livello globale dalla Cornell University e dal movimento internazionale antimolestie Hollaback!,3 ha riscontrato cifre comparabilmente elevate, rilevando per esempio che più del 50% delle donne in 22 paesi è stato palpeggiato in pubblico. In Germania la cifra raggiunge il 66%, e il 71% è stato seguito per strada, quasi sempre più di una volta. Negli Stati Uniti, oltre la metà delle donne riferisce di aver subito la prima molestie a meno di diciassette anni. […] In Europa le donne molestate prima di aver compiuto diciassette anni sono più dell’81%, mentre a livello globale la cifra sale all’84, con molte intervistate che dicono di avere avuto anche solo nove o dieci anni.

    Per quanto riguarda il contesto specificamente italiano, oltre al secondo studio citato da Chemaly (nel PDF sono riportati i dati relativi a tutti i paesi in cui lo studio è stato condotto), ci sono i risultati dell’indagine campionaria sulla “Sicurezza dei cittadini”, effettuata dall’ISTAT nel 2015-2016 tramite interviste a un campione di 50.350 persone (donne e uomini) dai 14 anni in avanti.

    Riporto qui una sintesi, ma nel rapporto trovate i dettagli + tabelle e grafici:

    Sono 8 milioni 816mila (il 43,6%) le donne dai 14 ai 65 anni che nel corso della loro vita hanno subito una qualche forma di molestia sessuale come pedinamenti, esibizionismo, telefonate oscene, molestie verbali e fisiche, molestie sui social network.

    Le forme di molestia più frequentemente subite dalle donne nel corso della vita sono quelle verbali: il 24% delle donne ha riferito di essere stata importunata verbalmente, infastidita o spaventata da proposte indecenti o commenti pesanti sul proprio corpo; seguono gli episodi di pedinamento (20,3%), le molestie con contatto fisico, come l’essere toccate, abbracciate, baciate contro la propria volontà (15,9%), il 15,3% ha subito atti di esibizionismo mentre le telefonate o i messaggi osceni a sfondo sessuale o che mirano a offendere la persona hanno coinvolto il 10,5% delle donne.

    Il 6,8% delle donne ha subito proposte inappropriate o commenti osceni o maligni sul proprio conto attraverso i social network, al 3,2% sono state mostrate foto o immagini dal contenuto sessuale che l’hanno offesa o le è stato mostrato materiale pornografico contro la propria volontà, all’1,5% è capitato infine che qualcuno si sia sostituito a lei per inviare messaggi imbarazzanti, minacciosi od offensivi verso altre persone.

    E non dimentichiamo le molestie sul posto di lavoro:

    Si stima che siano 1 milione 404mila (8,9%) le donne che hanno subito molestie fisiche o ricatti sessuali sul posto di lavoro; 425mila (2,7%) negli ultimi tre anni.
    […] Con riferimento ai soli ricatti sessuali sul luogo di lavoro si stima che, nel corso della vita, 1 milione 173mila donne (7,5%) ne sono state vittima per essere assunte, per mantenere il posto di lavoro o per ottenere progressioni nella carriera. Nell’11,3% dei casi le donne vittime hanno subito più ricatti dalla stessa persona e il 32,4% dei ricatti viene ripetuto quotidianamente o più volte alla settimana.”

    Pertanto, la prossima volta che qualche “scettico” accuserà chi parla di violenza di basarsi esclusivamente sulla propria esperienza o su opinioni personali, ricordate che sta dicendo non solo una cosa stupida ma,  soprattutto, una cosa falsa.

    1. Marco Crepaldi, laureato in Psicologia sociale e fondatore dell’associazione Hikikomori Italia.
    2. Stop Street Harassment è un’organizzazione non profit dedicata a documentare e combattere in tutto il mondo le molestie che avvengono per strada.
    3. Hollaback! è un movimento globale fondato sull’attivismo che vuole porre fine alle molestie, in ogni loro forma.
  • Femminismo: cos’è (e cosa non è)

    Prima di cominciare questo percorso di condivisione, mi sembra opportuno sgombrare il campo da supposizioni, nozioni e fissazioni infelici che tuttora circolano a proposito di cosa sia il femminismo.

    Partiamo col botto: femminismo non vuol dire “odiare gli uomini”. Sorpresona, eh?

    Le persone femministe non odiano i maschi, odiano la cultura maschilista, razzista, sessista e patriarcale nella quale siamo immersi.
    Non vogliono che i maschi si estinguano, non vogliono rubare il loro potere (inserire qui immagine di me che alzo gli occhi al cielo), non vogliono ridurli in schiavitù e privarli dei diritti.
    Insomma, non vogliono fare agli uomini nessuna delle cose che sono state fatte alle donne – e non solo – per millenni.

    Avrete notato che ho scritto “persone femministe” e non “femministe” e basta. Questo perché – e tenetevi forte, è un’altra sorpresona – ogni persona, indipendentemente dal proprio sesso e/o genere e/o orientamento, può essere femminista. BAM BAM!

    Essere femminista significa credere che tutti gli esseri umani (a partire dalle donne, le quali – ulteriore sorpresa – sono esseri umani) debbano avere gli stessi diritti e le stesse libertà di pensiero e azione, per quanto sciocchi, illusi, malvestiti, grassi, magri, pigri, calvi, brutti belli abili non abili maschi femmine né maschi né femmine essi siano. (Quindi significa anche lavorare affinché gli uomini possano uscire da quella “gabbia piccola e rigida” fatta di aggressività, distacco dalle emozioni e virilità conformista in cui la cultura contemporanea ancora li costringe.)

    Nelle parole di Marcia Tiburi,1

    Il femminismo ci porta alla lotta per i diritti di tutte, tuttə2 e tutti. Tutte perché chi porta avanti questa lotta sono le donne. Tuttə perché il femminismo ha liberato gli individui dall’identificarsi solamente come donne o uomini e ha aperto uno spazio per altre espressioni di genere – e di sessualità […]. Tutti perché è una lotta per una certa idea di umanità e, proprio per questo, considera che tutte quelle persone definite come ‘uomini’ debbano a loro volta essere incluse in un processo autenticamente democratico, evento che il mondo maschilista – che ha attribuito agli uomini i privilegi ma li ha abbandonati a una profonda miseria mentale – non ha mai davvero voluto portare a compimento.3

    Questa citazione ci permette di introdurre al volo un’altra nozione ommioddio: femminismo NON È il contrario di maschilismo.
    ‘Maschilismo’, sostantivo nato ricalcando la forma di ‘femminismo’, indica la convinzione che l’uomo sia superiore alla donna.
    ‘Femminismo’, invece, non solo non ha a che fare con la presunta superiorità della donna rispetto all’uomo, ma è una parola che porta con sé la lunga storia di un movimento, con le sue molte battaglie e altrettante conquiste.

    Sostituire femminismo con un termine più ‘inclusivo’ significherebbe, come spiega Giulia Blasi nel suo Manuale per ragazze rivoluzionarie, “l’annientamento, insieme al termine, di secoli di storia del pensiero, di lotte, di rivolte, di proteste, di collettivi, di autocoscienza. Nonché dell’esistenza stessa delle donne e della femminilità come costrutto culturale, che ancora una volta deve passare in secondo piano, essere delegittimata, anziché valorizzata ed estesa a chiunque voglia adottarne i tratti. Se la parola ‘femminista’ scompare, è più facile che gli uomini rivendichino ancora una volta la testa della lotta, cambiandone le regole e i principi e decidendo come va fatta”.

    Riassumendo, quindi: il femminismo non è donne contro uomini; non è un desiderio di ribaltare i rapporti di potere semplicemente cambiando l’identità di chi subisce; non è il tentativo di strappare agli uomini la loro identità o di obbligarli a depilarsi le sopracciglia e portare la gonna (qui immaginate un altro eye rolling). (Non è neanche una serie di altre cose, più serie, di cui ci occuperemo.)

    Citando ancora Tiburi, il femminismo è invece:

    […] il desiderio di una democrazia radicale rivolta alla lotta per i diritti di chi subisce ingiustizie sistematicamente disposte dal patriarcato.4

    Chi subisce ingiustizie, alias le donne ma non soltanto le donne (da cui il concetto fondamentale di intersezionalità, e anche su questo torneremo. Oooh, se ci torneremo).

    Non un ideale astratto, non il propagandismo “simpaticone, fatto di slogan, pugnetti alzati e Rosie the Riveter con il bicipite in mostra”5.

    Il femminismo è una pratica, come la filosofia, ed è una pratica scomoda perché tocca dove fa più male, nella tenera carne dei privilegi e dei pregiudizi. Pretende risposte e cambiamenti. Non rassicura ma crea dubbi, non conforta ma genera rabbia.

    Allora, vi chiederete, perché essere femministe / femministi? In questo posso rispondere solo per me, ma non credo di essere l’unica a pensarlo: perché non se ne può fare a meno.

    1. Marcia Tiburi, scrittrice, artista e docente universitaria brasiliana.
    2. L’uso dello schwa (il simbolo ə) per indicare il genere non binario è stato scelto dalla casa editrice effequ al posto di altre varianti possibili (*, u, _, x, @), prendendo spunto dalla proposta formulata da Vera Gheno nel suo Femminili singolari, effequ 2019.
    3. Marcia Tiburi, ll contrario della solitudine. Manifesto per un femminismo in comune, effequ 2020.
    4. Ibidem
    5. Giulia Blasi, Manuale per ragazze rivoluzionarie, Rizzoli 2018.
  • Il silenzio non è più d’oro

    Ho comprato questo dominio oltre un anno fa. Avevo appena iniziato La rabbia ti fa bella, di Soraya Chemaly, e volevo un posto dal e nel quale urlare tutto lo schifo che mi sentivo dentro (da cui il titolo del progetto. In inglese perché sì). Poi il lavoro, la pigrizia, l’abitudine, la vita eccetera. 

    Oggi, dopo aver letto l’ennesimo post ignorante, offensivo, maschilista, paternalista e stronzo dell’ennesimo uomo ignorante, offensivo, maschilista, paternalista e stronzo, e dopo averci trovato il like di una persona molto giovane e molto cara, mi sono sentita di merda. Amareggiata, furibonda e impotente. Fa schifo sentirsi così. 

    Allora ho pensato che fosse il momento di passare all’azione. 

    Un nuovo (ancora?) progetto con l’etichetta “femminista” potrà non sembrare granché, come azione, ma è di sicuro meglio dell’indignazione solitaria e dei rant in chat con le amiche (che comunque restano indispensabili, perciò siano benedetti i rant e le chat e le amiche). 

    È una presa di posizione esplicita che lascia una traccia, per quanto minima, nel mondo.
    È una voce in più in un coro che sta crescendo e deve continuare a farlo.
    È altresì una rivendicazione di spazio e di opposizione a un sistema che, nonostante gli anni che passano, insiste nel cercare sempre nuovi modi per zittire le donne. E io sono stata zitta abbastanza a lungo.

    The screaming woman, quindi. Buona permanenza a tutte e a tutti.

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