The Screaming Woman

  • Perché usiamo il termine femminicidio?

    Perché usiamo il termine femminicidio?

    Di femminicidio si parla ovunque, in questo radioso 2023, eppure leggo ancora cose come: ”Perché dobbiamo usare questa parola? C’è già omicidio!” e ”No a morti di serie A e morti di serie B!”.

    Spesso a indignarsi sono le stesse persone che davanti a ”ingegnera” o ”avvocata” levano gli occhi al cielo e paventano l’arrivo del dentistO o del pediatrO. Persone con un buon livello culturale e in possesso di tutti i mezzi – intellettuali ed economici – per chiarire i loro dubbi, ma che scelgono consapevolmente di non farlo.

    Molte attiviste sostengono che il compito di educare ”gli altri” non dovrebbe ricadere sui soggetti marginalizzati, e hanno ragione, perché predicare nel deserto di orecchie non disposte ad ascoltare è sfiancante. È anche vero però che l’unico modo per far entrare le cose importanti nel maggior numero di teste possibile è ripeterle, ripeterle e ripeterle, fino a che non diventano ovvie – da cui il senso del presente progetto.

    Pertanto, eccoci qui a ripetere per i signori in fondo all’aula che il termine femminicidio non è stato creato per distinguere le morte femmine dai morti maschi e causare grave danno discriminatorio agli uomini. Femminicidio non è la variante femminile di “omicidioe non indica il genere della vittima, bensì le ragioni per le quali è stata uccisa: perché era una femmina. Non biologicamente, ma culturalmente femmina.

    Vediamo come siamo arrivate a costruire questo concetto, facendoci aiutare dall’Enciclopedia Treccani:

    Il neologismo femminicidio, ormai ampiamente diffuso in Italia, deve le sue origini al meno noto termine femmicidio, anche questo introdotto nella nostra lingua con un uso molto diverso da quello che, in origine, lo caratterizzava nella lingua anglosassone, da cui è stato tradotto.

    La connotazione di genere nell’utilizzo del termine femicide, per indicare gli omicidi di genere, risale alla seconda metà del Novecento. Diana Russell è la studiosa che maggiormente ha contribuito all’elaborazione della categoria criminologica del f., mediante la quale distingue dagli omicidi di donne per motivi accidentali o occasionali tutte quelle uccisioni di donne, lesbiche, trans e bambine basate sul genere, e quelle situazioni in cui la morte di donne, lesbiche, trans e bambine rappresenta l’esito o la conseguenza di altre forme di violenza o discriminazione di genere.

    Nel suo pezzo del 1992, Russel scriveva infatti:

    Il concetto di femmicidio si estende al di là della definizione giuridica di assassinio e include quelle situazioni in cui la morte della donna rappresenta l’esito / la conseguenza di atteggiamenti o pratiche sociali misogine.

    la forma estrema della violenza di genere contro le donne, prodotto dalla violazione dei suoi diritti umani in ambito pubblico e privato attraverso varie condotte misogine, quali i maltrattamenti, la violenza fisica, psicologica, sessuale, educativa, sul lavoro, economica, patrimoniale, familiare, comunitaria, istituzionale, che comportano l’impunità delle condotte poste in essere, tanto a livello sociale quanto dallo Stato e che, ponendo la donna in una condizione indifesa e di rischio, possono culminare con l’uccisione o il tentativo di uccisione della donna stessa, o in altre forme di morte violenta di donne e bambine: suicidi, incidenti, morti o sofferenze fisiche e psichiche comunque evitabili, dovute all’insicurezza, al disinteresse delle istituzioni e all’esclusione dallo sviluppo e dalla democrazia.

    Il femminicidio, quindi, non indica solo l’uccisione della persona, ma chiama in causa tutte le variabili culturali, sociali, storiche, economiche ecc. che mettono e mantengono le donne di qualunque età in una posizione vulnerabile e subordinata.
    Scrive ancora Anzani:

    Sul piano dei comportamenti individuali, il femminicidio può essere visto come la massima espressione del potere e del controllo dell’uomo sulla donna, l’estremizzazione di condotte misogine e discriminatorie fondate sulla disuguaglianza di genere.

    Per ulteriori dettagli – e qualche dato sui femminicidi nel mondo – metto qui una bibliografia minimissima, dalla quale sarà facile partire in caso voleste saperne ancora di più:

  • A volte ritornano, forse per restare

    A volte ritornano, forse per restare

    Il femminicidio di Giulia Cecchettin ci ha ricordato la necessità di fare rumore, farci sentire e vedere, perché tutto lo spazio che non saturiamo con le nostre voci sarà riempito da qualcos’altro, probabilmente per cancellarci.

    Abbiamo ribadito che è fondamentale occupare le piazze e le strade (e non solo il 25 novembre), il web in tutti i suoi anfratti, la stampa, i libri e le librerie, i luoghi dove lavoriamo, studiamo o ci incontriamo o spendiamo o ci facciamo visitare.

    Ognuna sceglie le sue armi. Chi può va a manifestare e lo fa per tutte, chi può discute a tavola coi parenti e lo fa per tutte, chi può ascolta, accompagna, consola e lo fa per tutte. Non c’è un solo modo per lottare. 

    Il 15 maggio del 1940, Virginia Woolf scriveva nel suo diario: “This idea struck me: the army is the body: I am the brain. Thinking is my fighting”.1

    E allora seguendo lei ci riprovo, a pensare e a parlare per combattere, ripartendo da qui.

  • Cosa succede in Messico?

    Cosa succede in Messico?

    Ricordate l’8 marzo? A Mexico City, nonostante le limitazioni dovute al Covid-19, centinaia di donne si sono riunite per manifestare contro l’aumento delle violenze registrato nel 2020.

    Attorno al Palacio National, dove risiede il presidente Andres Manuel Lopez Obrador, c’erano barriere protettive altre tre metri. Le dimostranti hanno iniziato a scriverci sopra i nomi delle donne uccise nell’ultimo anno e quelli di amiche, madri, figlie, sorelle, tutte vittime di violenza. Lo spazio non è bastato.


    Cosa succede in Messico?

    In Messico ci ammazzano per il solo fatto di essere donne. Dobbiamo stare attente a come ci vestiamo, così non ci stuprano o uccidono.
    Dobbiamo essere sicure che non ci stiano seguendo e ogni giorno è terrorizzante.
    Il nostro governo non sta facendo niente e siamo stanche di combattere per qualcosa per cui non ci dovrebbe [essere bisogno di] combattere.
    Abbiamo il diritto di non avere paura quando nostra madre, sorella, nonna, amica esce da sola.
    E i media ci dipingono sempre come “quelle pazze con problemi di rabbia” quando protestiamo.
    Ma più o meno 10 donne vengono uccise ogni giorno in Messico. 10… OGNI GIORNO.
    Come potremmo non essere arrabbiate? Siamo furiose. Siamo disgustate e stanche di tutto questo, e vogliamo che finisca. Tutto questo deve finire.

    Quella di rappresentare come pazze isteriche le donne che escono dal recinto e chiedono cose – diritti, sicurezza, rispetto, aggiungete pure a piacere – è una tradizione con radici millenarie (prima o poi capiterà di riparlarne), e che riemerge con particolare forza nelle dimostrazioni pubbliche.

    Infatti, le donne tendono a essere bersaglio di repressioni violente anche quando manifestano pacificamente.

    Traduco il paragrafo introduttivo:

    Fino a quel momento, era inimmaginabile che la polizia l’avrebbe fatto. È qualcosa che sappiamo, ma sperimentarlo è terrificante, perché si tratta dello Stato. Sappiamo che da queste parti in periferia c’è impunità per qualsiasi uomo che commette un crimine contro una donna, ma contro lo Stato è una causa persa.

    Anche in Messico, come in Gran Bretagna, l’assenza dello Stato e la mancanza di responsabilizzazione per chi compie violenza sulle donne emergono in tutta la loro desolante realtà.

  • Molestie sessuali nel Regno Unito

    Molestie sessuali nel Regno Unito

    In caso aveste difficoltà coi numeri – come me – rendiamo il concetto più comprensibile: 97% vuol dire 97 su 100, ovvero praticamente TUTTE.
    Le ragazze sopra i 18 e sotto i 25 anni sentono di essere “costantemente costrette a modificare il loro comportamento per evitare oggettivizzazioni e attacchi”, mentre le donne più grandi “sono seriamente preoccupate per la propria sicurezza ogni volta che escono di casa col buio – d’inverno anche durante il giorno”.

    Il sondaggio segnala inoltre la quasi totale perdita di fiducia nelle autorità: il 96% delle partecipanti non ha mai denunciato le molestie subite, e il 45% di loro ritiene che “non cambierebbe niente” anche se lo facesse.
    E non stiamo parlando solo di molestie “leggere” come catcalling 1 o battute allusive sul posto di lavoro, ma di donne che sono state palpeggiate, seguite per strada o forzate a un qualche tipo di attività sessuale.

    Femmine italiane fra i 10 e i 100 anni, vi ricorda niente?

  • Prontuario per un uso consapevole della Giornata internazionale della donna

    Prontuario per un uso consapevole della Giornata internazionale della donna

    Per prima cosa, non è la Festa della Donna. Sì, sappiamo che ci arrivano gli auguri e pure le mimose da Pandora, Interflora, Perugina, Bauli, H&M, Canale 5, il capo, il cugino, le amiche, la zia. E sappiamo che fra loro c’è chi ha buone – o quanto meno innocue – intenzioni (tu no, Vodafone), pertanto sta a noi decidere se accettarli, accettarli con riserva o rispedirli al mittente.

    Il punto rimane: l’8 marzo non è una festa. È la giornata scelta per celebrare le conquiste sociali, economiche e politiche ottenute dalle donne, e ricordare discriminazioni e violenze di cui sono state (e sono) oggetto.

    Non ha senso fare gli auguri a ogni femmina che vedete. Il 27 gennaio, Giornata della Memoria, fareste gli auguri a chi commemora i propri cari morti durante le persecuzioni nazi-fasciste, o a chi è sopravvissuto? Ecco, è lo stesso.
    Ancora meno sensate sono le battute pseudo-ironiche su quanto sarete gentili oggi con le vostre mogli / fidanzate / amiche / sorelle / insegnanti eccetera.

    Per finire, nell’articolo del Post trovate anche la storia di come nel nostro Paese le mimose sono state associate alla Giornata della donna.

    Ed è la sorpresa più bella perché, dopo aver letto le parole di Teresa Mattei,1 penso che quei mazzolini gialli possono ancora trasmettere un senso di solidarietà e appartenenza a una causa comune. Forse.

  • Donne e molestie: qualche dato

    Donne e molestie: qualche dato

    Quando le donne dicono di non sentirsi sicure al di fuori della propria abitazione (spesso neanche all’interno, ma è un altro discorso), c’è sempre qualche voce illuminata, di solito maschile, che reagisce con un “esagerate!”.

    Nel giugno scorso, in risposta alla polemica nata dopo alcune esternazioni di Marco Crepaldi,1 lessi questo tweet (il nome dell’autore è oscurato perché non mi interessa né citarlo – non lo conosco – né focalizzarmi su di lui):

    In poche righe, pregevole distillato di merda patriarcale, ecco un grande classico: le donne che denunciano un problema o esagerano o sono pazze, e avrebbero bisogno di farsi vedere da uno bravo.
    Non vengono credute, nonostante l’imponente mole di dati disponibili. Perché sì (ennesima sorpresa), i dati esistono! Basta cercarli.

    Prendiamo ad esempio la questione delle molestie, ovvero: atti o comportamenti indesiderati a connotazione sessuale, di tipo fisico, verbale o non verbale, offensivi della libertà e della dignità di chi li subisce, ma che non sfociano in aggressioni violente (minacce armate, percosse, stupro). Quelle sciocchezze che ci fanno avere paura di sedere su un autobus da sole o tornare a casa anche se non viviamo nel Bronx, insomma.

    Da La rabbia ti fa bella di Soraya Chemaly, apprendiamo che:

    Riporto qui una sintesi, ma nel rapporto trovate i dettagli + tabelle e grafici:

    Sono 8 milioni 816mila (il 43,6%) le donne dai 14 ai 65 anni che nel corso della loro vita hanno subito una qualche forma di molestia sessuale come pedinamenti, esibizionismo, telefonate oscene, molestie verbali e fisiche, molestie sui social network.

    Le forme di molestia più frequentemente subite dalle donne nel corso della vita sono quelle verbali: il 24% delle donne ha riferito di essere stata importunata verbalmente, infastidita o spaventata da proposte indecenti o commenti pesanti sul proprio corpo; seguono gli episodi di pedinamento (20,3%), le molestie con contatto fisico, come l’essere toccate, abbracciate, baciate contro la propria volontà (15,9%), il 15,3% ha subito atti di esibizionismo mentre le telefonate o i messaggi osceni a sfondo sessuale o che mirano a offendere la persona hanno coinvolto il 10,5% delle donne.

    Il 6,8% delle donne ha subito proposte inappropriate o commenti osceni o maligni sul proprio conto attraverso i social network, al 3,2% sono state mostrate foto o immagini dal contenuto sessuale che l’hanno offesa o le è stato mostrato materiale pornografico contro la propria volontà, all’1,5% è capitato infine che qualcuno si sia sostituito a lei per inviare messaggi imbarazzanti, minacciosi od offensivi verso altre persone.

    E non dimentichiamo le molestie sul posto di lavoro:

    Si stima che siano 1 milione 404mila (8,9%) le donne che hanno subito molestie fisiche o ricatti sessuali sul posto di lavoro; 425mila (2,7%) negli ultimi tre anni.
    […] Con riferimento ai soli ricatti sessuali sul luogo di lavoro si stima che, nel corso della vita, 1 milione 173mila donne (7,5%) ne sono state vittima per essere assunte, per mantenere il posto di lavoro o per ottenere progressioni nella carriera. Nell’11,3% dei casi le donne vittime hanno subito più ricatti dalla stessa persona e il 32,4% dei ricatti viene ripetuto quotidianamente o più volte alla settimana.”

    Pertanto, la prossima volta che qualche “scettico” accuserà chi parla di violenza di basarsi esclusivamente sulla propria esperienza o su opinioni personali, ricordate che sta dicendo non solo una cosa stupida ma,  soprattutto, una cosa falsa.

  • Femminismo: cos’è (e cosa non è)

    Femminismo: cos’è (e cosa non è)

    Prima di cominciare questo percorso di condivisione, mi sembra opportuno sgombrare il campo da supposizioni, nozioni e fissazioni infelici che tuttora circolano a proposito di cosa sia il femminismo.

    Partiamo col botto: femminismo non vuol dire “odiare gli uomini”. Sorpresona, eh?

    Le persone femministe non odiano i maschi, odiano la cultura maschilista, razzista, sessista e patriarcale nella quale siamo immersi.
    Non vogliono che i maschi si estinguano, non vogliono rubare il loro potere (inserire qui immagine di me che alzo gli occhi al cielo), non vogliono ridurli in schiavitù e privarli dei diritti.
    Insomma, non vogliono fare agli uomini nessuna delle cose che sono state fatte alle donne – e non solo – per millenni.

    Essere femminista significa credere che tutti gli esseri umani (a partire dalle donne, le quali – ulteriore sorpresa – sono esseri umani) debbano avere gli stessi diritti e le stesse libertà di pensiero e azione, per quanto sciocchi, illusi, malvestiti, grassi, magri, pigri, calvi, brutti belli abili non abili maschi femmine né maschi né femmine essi siano. (Quindi significa anche lavorare affinché gli uomini possano uscire da quella “gabbia piccola e rigida” fatta di aggressività, distacco dalle emozioni e virilità conformista in cui la cultura contemporanea ancora li costringe.)

    Nelle parole di Marcia Tiburi,1

    Questa citazione ci permette di introdurre al volo un’altra nozione ommioddio: femminismo NON È il contrario di maschilismo.
    ‘Maschilismo’, sostantivo nato ricalcando la forma di ‘femminismo’, indica la convinzione che l’uomo sia superiore alla donna.
    ‘Femminismo’, invece, non solo non ha a che fare con la presunta superiorità della donna rispetto all’uomo, ma è una parola che porta con sé la lunga storia di un movimento, con le sue molte battaglie e altrettante conquiste.

    Riassumendo, quindi: il femminismo non è donne contro uomini; non è un desiderio di ribaltare i rapporti di potere semplicemente cambiando l’identità di chi subisce; non è il tentativo di strappare agli uomini la loro identità o di obbligarli a depilarsi le sopracciglia e portare la gonna (qui immaginate un altro eye rolling). (Non è neanche una serie di altre cose, più serie, di cui ci occuperemo.)

    Citando ancora Tiburi, il femminismo è invece:

    […] il desiderio di una democrazia radicale rivolta alla lotta per i diritti di chi subisce ingiustizie sistematicamente disposte dal patriarcato.4

    Chi subisce ingiustizie, alias le donne ma non soltanto le donne (da cui il concetto fondamentale di intersezionalità, e anche su questo torneremo. Oooh, se ci torneremo).

    Il femminismo è una pratica, come la filosofia, ed è una pratica scomoda perché tocca dove fa più male, nella tenera carne dei privilegi e dei pregiudizi. Pretende risposte e cambiamenti. Non rassicura ma crea dubbi, non conforta ma genera rabbia.

    Allora, vi chiederete, perché essere femministe / femministi? In questo posso rispondere solo per me, ma non credo di essere l’unica a pensarlo: perché non se ne può fare a meno.

  • Il silenzio non è più d’oro

    Il silenzio non è più d’oro

    Oggi, dopo aver letto l’ennesimo post ignorante, offensivo, maschilista, paternalista e stronzo dell’ennesimo uomo ignorante, offensivo, maschilista, paternalista e stronzo, e dopo averci trovato il like di una persona molto giovane e molto cara, mi sono sentita di merda. Amareggiata, furibonda e impotente. Fa schifo sentirsi così. 

    Allora ho pensato che fosse il momento di passare all’azione. 

    Un nuovo (ancora?) progetto con l’etichetta “femminista” potrà non sembrare granché, come azione, ma è di sicuro meglio dell’indignazione solitaria e dei rant in chat con le amiche (che comunque restano indispensabili, perciò siano benedetti i rant e le chat e le amiche). 

    È una presa di posizione esplicita che lascia una traccia, per quanto minima, nel mondo.
    È una voce in più in un coro che sta crescendo e deve continuare a farlo.
    È altresì una rivendicazione di spazio e di opposizione a un sistema che, nonostante gli anni che passano, insiste nel cercare sempre nuovi modi per zittire le donne. E io sono stata zitta abbastanza a lungo.

    The screaming woman, quindi. Buona permanenza a tutte e a tutti.